Il soggetto trans nell’arte e i suoi significati

Scritto da Giorgia Morselli on . Postato in Cinematografia e TV, Opinioni

“La visibilità trans in televisione ha raggiunto attualmente livelli mai conosciuti prima”. Alla fine del 2014 la veridicità di questa affermazione, tratta dall’annuncio che la rete ABC Family presenterà nel corso del 2015 un docureality incentrato sul tema della transessualità, è incontestabile.

Negli anni passati, l’esistenza di una serie di successo come l’eccellente, spassoso e profondamente umano Transparent prodotto da Amazon sarebbe apparsa come un enorme passo in avanti – ma ora ci troviamo nella fantastica (in entrambi i sensi della parola) posizione di non avere nemmeno bisogno di attaccarci a un singolo segnale di progresso. Per cominciare, abbiamo continuato a godere della genialità queer di Orange Is the New Black, nonostante il personaggio di Laverne Cox rivesta un ruolo relativamente meno centrale nella seconda serie (e d’altra parte parte si è potuto trovare il suo volto in tutte le edicole americane, sulla copertina del Time.) MTV in ottobre ha interrotto la programmazione di Catfish per trasmettere The T Word, un potente documentario presentato da Cox, mentre lo scorso autunno AOL ha presentato al mondo la serie autobiografica True Trans, creata dalla musicista Laura Jane Grace. Ma questo breve elenco non basta a rendere conto delle innumerevoli presenze di personaggi, attori o temi transgender in altri programmi, come il personaggio di Cole in The Fosters e di Amazon Eve in American Horror Story: Freak Show, o l’eccellente episodio di South Park sui bagni pubblici gender-neutral. E questa tendenza nella televisione non si ferma qui: come affermato recentemente dal magazine LGBT The Advocate, potremmo assistere nel corso del 2015 ad almeno sette programmi televisivi sul tema trans.

Ma al di là del bagliore degli schermi, l’esperienza trans è diventata un tema importante anche nelle altre arti. La punk band di Laura Jane Grace, Against Me!, ha pubblicato nel gennaio 2014 l’album Transgender Dysphoria Blues, generando un’ondata di esplorazioni sul genere in ambito musicale, e i visual artist Zackary Drucker e Rhys Ernst (tra l’altro produttori associati di Transparent) hanno visto esposto il loro lavoro autobiografico alla prestigiosa Whitney Biennial. In settembre, la Brooklyn Academy of Music and American Opera Projects ha presentato la prima mondiale di As One, una raffinata opera da camera interamente dedicata al processo di coming out di una donna trans.

Si sommino tutti questi ritratti di fiction e documentari all’improvviso emergere di icone trans pubbliche come Cox, Janet Mock e Carmen Carrera nella scena mainstream, e diventa arduo ricordare che c’è stato un tempo in cui la “visibilità trans” era un fenomeno raro. Naturalmente quel tempo è tutt’altro che lontano dall’oggi, e la vita quotidiana per la maggior parte delle persone trans – specialmente per le donne trans di colore – resta precaria: non dobbiamo sottovalutare tutto il lavoro che resta ancora da fare per garantire i diritti civili e combattere la transfobia diffusa. Detto questo, credo valga la pena di fare un passo indietro, in un momento in cui “il fenomeno trans” occupa una parte tanto ampia del dialogo culturale, per chiederci come questo sia accaduto e cosa possa significare. Come mai questa particolare esperienza minoritaria si è dimostrata tanto ricca di potenziale creativo? Perché artisti che operano in diversi ambiti mediatici la trovano tanto attraente? Perché l’”arte trans”, e perché proprio ora?

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Gennaio 2015: Transparent vince il Golden Globe come Miglior Serie TV per la categoria commedia-musical e per il Miglior attore di una serie tv comedy (Jeffrey Tambor). Il premio è stato dedicato a Leelah Alcorn

In buona misura l’ascendente esercitato dal tema trans deriva, comprensibilmente, da un impulso attivista. Alcuni creativi operano con finalità esplicitamente educative o allo scopo di aumentare la visibilità del fenomeno, come nel caso dei progetti di tipo documentaristico. Altri, specialmente quelli che, come Grace, sono trans in prima persona, vogliono offrire la propria testimonianza personale. L’autrice di Transparent, Jill Soloway, ha elegantemente spiegato come le sue motivazioni siano allo stesso tempo personali e artistiche: “Volevo fare qualcosa che rendesse il mondo un luogo più sicuro per il mio genitore [my parent]”. Come Maura, la protagonista della serie, il padre di Soloway ha fatto coming out come donna trans in età matura.

Ma il desiderio di introdurre un pubblico più ampio alle persone trans e alle loro esperienza, uno stimolo fondato più nella giustizia sociale che nell’estetica, non basta da solo a spiegare questo boom improvviso (né basterebbe l’idea, piuttosto cinica, di una produttrice che voglia saltare sul carro del “tema provocatorio”). Dopotutto, le minoranze sottorappresentate nei media popolari e nel mondo dell’arte sono molte, e le persone transgender costituiscono solo un gruppo relativamente modesto rispetto alla maggior parte di queste. Con ciò non intendo certo dire che le storie o le istanze delle persone trans non siano “abbastanza importanti” per farne materiale artistico; è solo che parrebbero esserci altre ragioni per il fatto che tanti artisti e creatori di cultura, di cui molti cisgender e/o non queer, trovano nel “trans” – inteso sia come idea che come identità – un suolo artisticamente fertile.

Quali sono dunque gli impieghi del “trans” nell’arte? Naturalmente, ognuno degli esempi menzionati sopra utilizza il tema in modi diversi, ma due di essi appaiono particolarmente chiarificatori.

L’opera da camera As One, composta da Laura Kamisnky su libretto di Mark Campbell e della filmmaker trans Kimberly Reed, sfrutta il gusto per l’autorivelazione cantata tipico di questo genere musicale per tracciare una sorta di ampio profilo psicologico dell’esperienza transgender. L’opera si compone di tre parti che seguono la parabola di una storia di coming out abbastanza prevedibile: scombussolamento interiore e prima coscienza di sé; esplorazione, ostacoli sociali e affiliazione comunitaria; e, infine, accettazione di sé e orgoglio.

Questa narrazione, in sé, non è particolarmente originale; la genialità di As One risiede nella scelta di scritturare due perfomer per il ruolo di Hannah, la donna trans protagonista: il baritono maschio Kelly Markgraf come “Hannah prima [della transizione]” e il mezzosoprano femmina Sasha Cooke come “Hannah dopo [la transizione]”. Altro elemento importante, il libretto non spezza l’opera in due parti come i nomi potrebbero suggerire, ma vede piuttosto i performer intrecciarsi elegantemente nel ruolo dominante, intonando arie che si sviluppano in duetti per poi tornare a una voce sola. Con questo, per essere chiari, non si vuole rappresentare una banale “lotta tra i sessi” all’interno di un individuo, né una progressione priva di complicazioni dal maschile al femminile. As One prende atto invece umilmente di come il genere sia al tempo stesso un elemento centrale e mutevole, un dato la cui costruzione è delicata, intricata e in qualche modo arbitraria, e che purtuttavia emana una sorta di possente gravità. Tutti dovremmo potere essere in grado di scegliere il termine identificativo (uomo, donna, butch queen, genderqueer, ecc.) che sentiamo più autentico – questa libertà è vitale. Ma un modello concettuale onesto richiede che tutti, anche coloro che si sentono più sicuri, comincino a comprendere il genere più come un coro di voci indisciplinate che come un’esecuzione solistica in un registro puro.

Transparent, pur distinguendosi completamente da As One in termini di convenzioni di genere artistico e di registro, celebra in modo simile il rumore caotico della transizione. La serie, che tratteggia i modi sorprendenti e spesso buffi in cui il coming out di Maura si riverbera sulla sua tipica, nevrotica famiglia della West Coast, affascina non (o non solo) perché il tema è “di tendenza” o per la sensibile interpretazione di Jeffrey Tambor. Il risultato più notevole raggiunto da Soloway è il modo in cui riesce a costruire un vero e proprio “catalizzatore transgender” in grado di avviare tutti i suoi personaggi sullo specifico cammino di transizione che ognuno di loro deve intraprendere. La serie pone tutti i personaggi in movimento. Certo, il movimento è sempre meno confortevole della stasi, ma la tesi di Transparent sembra essere che c’è qualcosa di utile, persino di cruciale, nel riconoscere il disagio insito nel cambiamento e nella ristrutturazione che ne segue, e nel farci i conti. Se c’è una morale in questa serie, dev’essere questa: diffidate sempre di una stabilità facile.

Questi usi estesi del motivo “trans” sono ciò che fa sì che As One e Transparent non siano prodotti semplicistici di arte identitaria, tesi unicamente a riempire una casella ancora vuota. Perché la funzione dell’elemento “trans” in ognuna di esse non è semplicemente quella di offrire la possibilità di vivere di riflesso l’esperienza (magari “illuminante”) di un bizzarro Altro. Ben al di là di questo, il motivo “trans” diventa un modo per riflettere su come tutti gli esseri umani debbano compiere il difficile lavoro di armonizzare in qualche modo la propria voce interiore con i più ampi accordi strutturali che sono già in essere intorno a loro. Coloro tra noi che hanno meno difficoltà a trovare comprensione da parte della società – a farsi sentire dagli altri nello stesso modo in cui sentono se stessi – potrebbero imparare molto dalle persone che non sono nate nella condizione privilegiata di poter dare quella udibilità per scontata. Quantomeno, potremmo arrivare a chiederci se alcuni dei requisiti necessari per ottenere quel tipo di intelligibilità siano effettivamente giusti ed equi.

Sulla questione della giustizia vale la pena di citare brevemente Judith Butler, filosofa il cui pensiero sul genere, sull’umano e sulla leggibilità sociale può aiutare a comprendere i vari tipi di esplorazioni artistiche a cui il concetto di “trans” apre. Nel saggio “Fare giustizia: riattribuzione di sesso e allegorie della transessualità” [in La disfatta del genere, Meltemi 2006] Butler osserva che “[la giustizia] concerne anche le decisioni relative a ciò che una persona è, a quali norme sociali debbano essere rispettate ed espresse affinché vi sia un’attribuzione di “persona” [personhood]. Riguarda anche la riconoscibilità, o meno, degli altri in quanto persone a seconda che si riconoscano, o meno, alcune norme che si manifestano nei loro corpi, attraverso di essi.”

Butler ci sfida a guardare alla giustizia non solo in termini di quanto equamente la legge o la società tratti una persona, ma anche in quanto elemento presente in quei testi che implicitamente utilizziamo per misurare la relativa “umanità” di altri esseri umani. Il genere – più specificamente, l’aderenza a un determinato insieme di norme relative a “che aspetto abbiano” il maschile e il femminile – è chiaramente uno dei più fondamentali tra questi criteri di valutazione, perciò qualsiasi persona o idea che disturbi tali norme tenderà probabilmente ad essere accolta non solo con ostilità ma, più profondamente, da una fondamentale incomprensione. Essere trans o intersex o in altro modo al di là del sistema binario tradizionale significa rischiare di non essere visti come esseri del tutto umani.

Il “trans” come tema artistico, dunque, ha l’effetto positivo di fare luce su alcuni confini sociali – i limiti dell’umano – che restano di solito invisibili, perlomeno agli occhi di coloro che godono del privilegio di non dovervisi imbattere continuamente. Uno dei compiti dell’arte è quello di esplorare questo tipo di confini e cercare di superarli, perciò non sorprende che tanti artisti abbiamo trovato nel soggetto “trans” uno strumento utile a questo scopo.

Ma perché proprio adesso? Per dirne una, l’attivismo trans ha raggiunto una visibilità sufficiente a rendere il tema intrigante sia per i creatori che per i settori più simpatetici del pubblico. Una ragione più convincente risiede nel fatto che altre modalità di indagine artistica cominciano a sembrare in via di esaurimento. Si prenda ad esempio la sessualità gay: per decenni la natura marginalizzata dell’omosessualità ha offerto questo tipo di implemento cartografico agli artisti interessati a limiti e confini. Ma il successo del movimento per i diritti delle persone gay ha portato molte (benché certo non tutte) persone gay, lesbiche e bisessuali lontano dai margini e dentro al mainstream, indebolendo contestualmente il potere critico della cultura gay. L’omosessualità appare sempre più stabile, sicura e accettata; se io fossi un artista, difficilmente la troverei interessante da esplorare.

D’altra parte, la sessualità “deviante” non ha mai rappresentato una minaccia così grave per lo status quo – dopotutto, chiunque è in grado di comprendere un orgasmo. Ma il genere? È qualcosa di molto più radicato e fondamentale, e testarlo provoca necessariamente scosse più violente sul piano culturale. È chiaro che molti dei nostri artisti creativi stanno cercando di provocare un terremoto. Non saprei pensare a un augurio migliore per il 2015: che sia un anno felicemente sismico.

 

di Bryan Lowder

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J. Bryan Lowder è editor associato di Slate. “Gay professionista”, scrive per Outward, la sezione LGBTQ di Slate, e per la sezione cultura.

Traduzione di Giorgia Morselli

Articolo originale: The Uses of “Trans” in Art

Immagine in home page: Laura Jane Grace

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